Sull’onda delle polemiche suscitate dalla proposta del “Fertility Day” accade che all’ordine del giorno, nelle “conversazioni volanti” con colleghi o conoscenti, ci siano temi come inverno demografico e denatalità, figli (gestione e spese correlate) e bilancio familiare. A maggior ragione adesso che nella mia pancia scalcia (e un po’ si vede) la terza figlia in arrivo. Mi colpiscono sempre le dichiarazioni convinte e sincere, non ho motivo di dubitarne, di chi dichiara apertamente “Non ho figli per scelta, non ne ho mai voluti” o “Io ne ho fatto uno, di più era impossibile”.
Al fondo mi sembra di cogliere sempre un segreto rimpianto, un velo di nostalgia per qualcosa che non si sa definire compiutamente. Non a caso, credo, queste dichiarazioni sono spesso seguite da un non richiesto elenco di motivazioni: non avevo aiuti, non avevo il tempo indeterminato, l’asilo costa, non mi avrebbero mai dato il part-time, avevo già un mutuo da pagare (cosa buffa, perché il sottinteso neanche troppo implicito è che chi mette al mondo più figli disponga per forza di tutto questo). Non me la sento mai di stigmatizzare queste obiezioni o di minimizzarle: non tanto per il loro valore oggettivo, ma perché è innegabile che da qualche decennio viviamo in quella che Benedetto XVI descriveva come “un’atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita”.
Che la vita sia buona in sé (e “buona”, come tutti sappiamo, non vuol dire facile, sicura, scevra da dolori e sofferenze) non è più così evidente ai nostri occhi: forse per una sempre più radicale solitudine che, in questa nostra epoca individualista e “liberata”, ci accompagna. Una solitudine che ingigantisce le difficoltà, non solo perché ci priva di reti e di supporti materiali, ma innanzitutto perché ci toglie il conforto di una simpatia solidale e ci sottrae la possibilità di gioire e soffrire insieme ad altri, di farci carico gli uni degli altri.
Nel romanzo Manalive (Uomovivo) Chesterton descrive il surreale incontro tra lo stravagante protagonista, Innocent Smith, e il suo docente universitario di filosofia Eames, nichilista convinto. A parere di Eames, le persone comuni cercano la felicità per un errore di calcolo: troppo stupide per accorgersi che ogni effimero godimento è comprato a costo di fatiche e sofferenze. Gli uomini non conoscono la felicità né sanno dove trovarla, come è provato “«dalla goffaggine e dalla bruttezza disgustose di tutto ciò che fanno. I loro colori stonati sono come urli di dolore. Guardate quelle villette in mattoni più in là dal collegio, da questa parte del fiume. Ce n’è una con certe tende a pallini… guardatela!»”.
Chi intuisce come stiano davvero le cose, prosegue Eames, impazzisce; e paradossalmente proprio i pazzi vedono la realtà dalla giusta prospettiva: infatti cercano sempre di distruggere qualcosa o se stessi. Vero benefattore degli uomini sarebbe chi li liberasse da questa esistenza insensata: “«Un cucciolo con la rabbia probabilmente cercherà di difendersi se tentiamo di ucciderlo. Eppure, a volergli bene davvero, bisogna ucciderlo suo malgrado. Ecco come un dio onnisciente dovrebbe liberarci dai nostri dolori: togliendoci di mezzo». «E perché non ci toglie di mezzo?», chiese astrattamente Smith, ficcandosi le mani in tasca. «Perché è morto» rispose il filosofo, «ed in questo è veramente degno di invidia. Ad ogni essere pensante i piaceri dell’esistenza, in sé tanto volgari e insipidi, appaiono allettamenti per attirare in una camera di tortura»”.
Improvvisamente Eames, fino a quel momento assorto nei propri discorsi, si rende conto che Innocent gli sta puntando una pistola al viso: offrendosi, con sguardo compassionevole e commosso, di liberarlo per sempre da quell’esistenza di dolore e illusione che egli tanto ha mostrato di disprezzare. Il professore con un salto si lancia fuori dalla finestra, rimanendo appeso a un antico contrafforte: per una volta, veramente, “appeso al nulla”, mentre implora salvezza. Contro ogni aspettativa, il nichilista Eames si trova costretto ad ammettere che desidera vivere. Smith allora lo costringe a ringraziare Dio per la vita, per l’Inghilterra, per le anatre della vasca e i papaveri, per chiese, cappelle e villette, per la gente comune, le pozzanghere, le pentole e i tegami e, ovviamente, per le tende a pallini. L’epilogo della vicenda non è meno sorprendente del suo svolgimento. Smith si giustifica spiegando ad Eames che “«bisognava che facessi quel che ho fatto: provare che voi avevate torto, o morire io. Quando uno è giovane, quasi sempre si affida a qualcuno come al depositario di tutte le verità conosciute. […] Tale voi eravate per me: e parlavate con autorità […]. Se voi dicevate che non c’era altro che il nulla, per me era come se il nulla l’aveste constatato coi vostri occhi. Non capite che era necessario, per me, comprovare che non dicevate sul serio; o altrimenti buttarmi giù nel canale?»”. I due uomini, in sintesi, si sono trovati “insieme sull’orlo della tomba”, e ne sono scampati: hanno scoperto che “in fin dei conti il mondo è qualcosa di bello, di meraviglioso”, persino la sciatta banalità di paperi starnazzanti e tendine dozzinali. Così il maestro si trova a ringraziare l’allievo per averlo fatto rinsavire: e gli consiglia di tenere in canna qualche colpo per chi altri sragionasse come lui stesso aveva fatto fino a quel momento.
L’avventura di Innocent Smith è l’avventura di Chesterton, che a vent’anni attraversò una fase di pessimismo e depressione durante la quale giunse a meditare il suicidio. Manalive, benché scritto e pubblicato molti anni più tardi (1912), è frutto di quel terribile periodo della sua esistenza, dal quale il giovane Gilbert uscì con un programma paradossale ben stampato in mente: “punterò la pistola alla tempia dell’Uomo Moderno. Non già per ucciderlo, ma per farlo rinascere alla vita”.
Ecco di chi ha bisogno l’umanità ferita dei nostri tempi, di chi abbiamo bisogno noi: di qualcuno capace di com-passione, che desideri immischiarsi con noi, condividere la vita con noi. Un amico, che ci punti la pistola alla tempia per stanarci dai sepolcri in cui senza avvedercene ci chiudiamo. E di questo oggi sono grata: di tutti gli Innocent Smith che, regalo splendido e immeritato, lungo la strada mi sono stati posti accanto.
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