Le letture messianico-cristologiche di Gen 3,15 sono respinte dalla tradizione ebraica, mentre quella protestante non accetta la lettura mariologica. Il testo masoretico tratta della lotta tra il ‘serpente – male’ e l’umanità, e pur parlando di una vittoria certa, non accenna minimamente al Messia. La traduzione dei LXX, nata in ambiente che viveva sotto l’influenza delle attese messianiche del tempo (siamo tra il 250 ed il 100 a.e.v.), pur usando lo stesso verbo ‘tereo’ insidiare, cambia il genere del soggetto della seconda parte del versetto con ‘utòs’ ‘egli’, attribuendo la vittoria non all’umanità nel suo insieme, ma ad uno dei figli della donna; inizia l’attesa messianica. I Padri della Chiesa leggono appunto in quell’‘egli’ proprio la figura di Gesù di Nazaret.
La Vulgata utilizza due verbi per indicare la lotta e cambia anche genere del soggetto; ‘ipsa’ al femminile, pronome che non può riferirsi a ‘semen’, che è neutro, ma solo a ‘mulier’ donna. E così con la tradizione patristica il riferimento è a Maria, la madre di Gesù. L’uomo e la donna non muoiono come era stato loro minacciato al versetto 2,17, ma con un atto di grazia del loro creatore continueranno a vivere pur se tra tanti travagli e difficoltà.
L’espulsione dall’Eden Gen 3,20-24
L’uomo chiamò la moglie Eva, perché essa
è la madre di tutti i viventi…
L’uomo impone il nome alla sua donna; ‘Eva, Chawwah’ che significa ‘la vivente’. Il versetto sembrerebbe qui fuori luogo; perché Eva è un titolo altamente onorifico e perciò non rientra più sotto la maledizione. Questo è un segno positivo e di speranza; l’uomo e la donna non sono morti; si intuisce l’intenzione divina di non abbandonarli: infatti, scacciandoli dal giardino di Eden, Dio fa loro due tuniche di pelle e li veste. Il ‘targum’ 13, tradotto ‘tuniche di luce’, quasiché l’umanità potesse relazionarsi ancora con il suo creatore, nonostante il peccato. Poi, Dio espelle l’uomo e la donna dal giardino di Eden, affinché lavorino la terra da dove erano stati tratti. E per impedire loro l’accesso all’albero della vita, Dio pone a guardia della porta d’accesso i cherubini e la ‘fiamma della spada’, che non dobbiamo intendere come una spada di fuoco brandita da un cherubino, secondo molta iconografia cristiana, ma verosimilmente come ‘il fulmine’, che viene chiamato ‘spada di Dio’; “Spada del Signore, quando dunque ti concederai riposo? Rientra nel fodero, riposati e stà calma”. (Ger 47,6).
Come spiega P. De Benedet
Leggi il testo integrale del saggio di Luigi Rigazzi su La Libertà del 10 settembre