Nella fossa dei leoni

Di recente mi sono trovata a Roma, nella bella basilica di Santa Maria del Popolo: al suo interno, nella Cappella Chigi, è collocata la scultura dedicata da Gian Lorenzo Bernini alla vicenda di Daniele e il leone. L’episodio dell’Antico Testamento, riportato dal sesto capitolo del Libro di Daniele, è noto: vi si narra dell’invidia covata verso l’innocente profeta dai satrapi del re Dario, i quali convincono il monarca ad emanare un editto che vieta la preghiera a qualsiasi divinità che non sia Dario stesso, e a condannare a morte Daniele, che continua a pregare il Dio di Israele. Gettato nella fossa dei leoni, dopo un giorno e una notte trascorsi in prigionia tra le fiere, Daniele ne è tratto fuori sano e salvo: Dio stesso ha inviato il suo angelo perché chiudesse le fauci delle belve.

La grande scrittrice e poetessa Elena Bono, nel suo Canto di Daniele, rilegge la vicenda immedesimandosi nei pensieri del profeta durante la notte trascorsa al buio tra le fiere: “Mia vita fra i leoni/ tenebrosa fossa di giorni./ Dalla bocca del pozzo/ si affacciano a deridermi:/ «Scenda il suo Dio laggiù/ per trarlo fuori/ a cielo aperto»”. È, questo, il grido dolente di ogni uomo sulla terra, il lamento di ogni vita quando l’oscurità arriva a lambirla. E davvero in questi nostri tempi, come in innumerevoli altri nella storia, sembra che l’ombra del male e del dolore sia capace di estendersi fino a coprire il sole – proprio come la pietra posta sopra la bocca della fossa che imprigiona Daniele. Salvo renderci conto che quella fossa la portiamo anche dentro: “Un baratro è l’uomo, e il suo cuore un abisso” (Sal 63, 7).

Fino alla profondità più abissale del limite, nostro e di tutto il creato, viene a sorprenderci la novità sconvolgente del Cristo nel tempo della Pasqua. Tempo di passione e di morte, tempo di resurrezione: il tempo più radicale che ci sia. O Lui o il niente, è questa la sfida. O l’inaudita, traboccante follia di vita della Resurrezione o il silenzio immoto del nostro nulla. Qui tutto si gioca, qui tutto sta o cade. San Paolo lo aveva drammaticamente compreso: “Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1Cor 15, 14). Ma Cristo è risorto, continua l’Apostolo, e questo semplice fatto cambia ogni cosa; ridona senso ad ogni singolo istante della storia del mondo, ad ogni attimo di ogni vita umana. Sono certa che ogni uomo, per quanto confusamente, possa riconoscere che questa è l’unica vera giustizia: che su quel desiderio di infinito che noi siamo non abbia l’ultima parola il marciume della morte. Non per sforzo intellettuale, e nemmeno per un vuoto slancio del sentimento, ma per quel grido di vita che è impresso in ogni fibra della nostra carne. È questa nostra stessa vita mortale a domandare l’eternità.

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Durante la Settimana Santa, ogni anno, rivedo il film “The passion of the Christ” di Mel Gibson. Ancor più delle scene strazianti della tortura, persino più che i momenti atroci della crocifissione e della morte, mi commuove l’ultimo minuto, quello della Resurrezione. Ancora una fossa, ancora l’oscurità, ancora una pietra a suggellare per sempre la vittoria della morte, dopo che uomini come leoni feroci hanno straziato le carni dell’Innocente. E poi, improvvisa, la luce. Un soffio come un lungo respiro leggero, una pietra rotolata via, un sudario che si affloscia, un uomo vivo che si alza: nelle sue mani ancora impresse le ferite dei chiodi.

Nelle nostre giornate il male incombe, ci incalza; urla contro di noi dalle nostre meschinità come dal vuoto di tante esistenze, che sembrano consegnarsi volontariamente al nulla; accumula obiezioni alla nostra possibilità di essere felici, alla nostra sete di salvezza. La sua forza e la sua violenza ci spaventano, ci tolgono la speranza, ci trascinano nuovamente nell’abisso come un turbine al quale non si può resistere. È su questo caos che, luminosa e definitiva, si leva la voce di quell’uomo; di quel Dio, che prima ancora di tirarci fuori dalla fossa è sceso nelle sue profondità assieme a noi. Un Dio “in tutto simile a noi fuorché nel peccato” (Eb 4, 15), che non ci elargisce la salvezza come una graziosa concessione, come un improvviso prodigio calato dall’alto, ma ci salva da dentro la nostra vita: “tu accanto mi stai/ spalla con spalla”, prega il Daniele della Bono. Negli abissi che minacciano di soverchiare la nostra esistenza non siamo abbandonati: non siamo soli con il nostro niente. Una spalla ci è offerta per posare il capo, una Presenza che vuole incontrarci uno ad uno, per salvarci uno ad uno. “Vita mia fra i leoni,/ angosciosa fossa di giorni./ Ma solo è tua/ tua soltanto è la notte/ e l’alta pace,/ tua soltanto la spalla a cui poggiare/ la fronte calpestata/ e dormire e sognare/ i cieli aperti della tua gloria”.

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