Libro di Edoardo Tincani con la prefazione di Marina Corradi

Auguri papà!
La famiglia, prima scuola mondiale di umanità…
Raccontare la bellezza ordinaria della famiglia, la sua vitalità tenace, è oggi una sfida importante, una responsabilità di fronte alle nuove generazioni per dir loro che essa non è un retaggio del passato, né un’oasi da proteggere, ma un’esperienza di gioia profonda.
Le edizioni “La Fontana di Siloe” presentano “Family man – Diario semiserio di un marito cristiano cinque volte papà” (126 pagine, 12 euro; e-book 7,99 euro), nuovo libro di Edoardo Tincani con la prefazione di Marina Corradi, dal 17 marzo in libreria (www.fontanadisiloe.it).
Famiglia che in lingua italiana inizia come fatica, ma finisce come meraviglia. Famiglia che è vocazione e progetto, certo anche croce da portare, e per tante persone è realizzazione di un sogno di felicità radicato nel cuore.
Il punto determinante – scrive Tincani nell’introduzione di Family man – è educativo: come rendere la famiglia appetibile alla maggioranza di uomini e donne che le preferiscono la convivenza, come spiegare la consolazione del “per sempre” a giovani avvezzi al precariato quale modalità di vita, come far preferire la sicurezza di un luogo di dialogo e riconciliazione ai ragazzi della “generazione boh”, secondo la definizione rap di Fedez.
Il segreto, anziché enunciare teorie, sta forse nel mettersi a raccontare la famiglia con semplicità e un sorriso, partendo dalla vita quotidiana e dalla bellezza della fedeltà.
Con intelligenza e leggerezza, questo “diario” di un papà alle prese con i molti affanni tipici della vita familiare aiuta a riflettere sul significato più profondo di questo bene comune.
Giovedì 14 aprile alle 17.30 l’autore incontrerà i lettori alla Libreria all’Arco, in via Emilia Santo Stefano 3/D, a Reggio. Interverranno il vescovo Massimo Camisasca e la giornalista Stefania Bondavalli.

Dal libro Un volo chiamato paternità
Ho scelto di essere presente in sala parto alla nascita di ciascuno dei figli. Ogni volta ho provato un’emozione unica. Diciamo che è la commozione nel senso più viscerale che ci possa essere: ti viene messa in braccio una persona a cui hai dato il tuo sangue però completamente originale, debole e piangente e tuttavia già pronta per crescere e diventare inesorabilmente diversa da come l’avevi immaginata.
Sono felice non solo di essere padre, ma di fare il papà. Dopo la nascita c’è la fase dell’accudimento, in cui ho imparato a muovermi con sufficiente disinvoltura tra pappe e pannolini, nidi d’infanzia e farmacie. Successivamente è arrivata la tentazione di defilarmi un po’, di delegare a Lucia il seguire i compiti, il dirimere le liti domestiche, l’interessarsi delle relazioni esterne. Ho capito invece che il bello dell’esperienza viene allora e che c’è sempre molto bisogno di un padre in casa.
Vedo intorno a me papà preoccupati per i figli perfino più delle mamme, informati e tecnologici e però insicuri, in continua ricerca del parere di un medico o di un insegnante, quasi che la paternità sia un affare che si sbroglia con consulenze esterne e non invece un viaggio che comincia dentro se stessi. Chissà se questa paura è solo un effetto della complessità moderna o è il sintomo di una visione incrinata della vita.
Confesso, al riguardo, che non ho mai avuto paura di essere un genitore inadeguato, perché sto sperimentando che a fare il padre s’impara strada facendo e perché sono convinto che amare i figli sia davvero tutto: l’unica paura recondita, semmai, è quella di non riuscire a fare il padre a lungo, ché non conosciamo il tempo a nostra disposizione.
Per il resto, prontuari non ne esistono. Oh, certo, non mi appaga lo stereotipo del babbo da spot televisivo, amico e complice. Mi ha sempre fatto riflettere che il patrono di riferimento, nella festa del papà, sia un santo di cui non conosciamo una sola parola. Eppure il suo rimanere come in ombra, nella vita del Figlio, ci ricorda che il progetto sui figli non è nostra proprietà.
La paternità è per far uscire il figlio dal suo guscio, per infondergli fiducia nella vita, per dargli delle regole chiare: non ricusando l’autorità come fosse un sopruso, ma considerandola – quale è – un doveroso esercizio di responsabilità. È un “volo” che si fa per insegnare ai figli a volare a loro volta, accettando il batticuore di vederli spiccare il salto su traiettorie inattese e sapendo già che verrà il giorno in cui non faranno ritorno al nido. Questa paternità mostra ai figli un orizzonte libero in cui avventurarsi. Dà loro dei fini, non solo dei mezzi.