Chiesa e mafie, il distacco necessario

In redazione padre Giuseppe Livatino e Salvo Ognibene

L’inchiesta “Aemilia”, le interdittive antimafia e i roghi “improvvisi”, le indagini dei giornali sui presunti lacci della ’ndrangheta su imprese e amministrazioni locali. Ci stiamo abituando a fare i conti coi fenomeni mafiosi alle nostre latitudini. E l’attenzione, a quanto pare, non è mai troppa. Anche ai cristiani, dalla Chiesa gerarchica al laicato, è richiesta una vigilanza attiva.
Parlando di mafia, fede e giustizia, c’è un testimone che viene in soccorso alla nostra (forse) scarsa competenza, ed è il giudice Rosario Livatino. Abbiamo incontrato in redazione il postulatore della causa di beatificazione, padre Giuseppe Livatino, prete diocesano di Agrigento (una parentela “non stretta” con il giudice ragazzino trucidato dalla mafia nel 1990), accompagnato da Salvo Ognibene, autore del libro “L’eucaristia mafiosa”.

Don Giuseppe, a che punto è la causa di beatificazione di Livatino?
Entro la fine di quest’anno completeremo la fase diocesana, avviata il 21 settembre 2011 a Canicattì dall’arcivescovo di Agrigento Francesco Montenegro. Sarà lui, vagliate le testimonianze e la documentazione raccolte finora, a valutare se trasmettere il processo alla Congregazione per le cause dei santi.

Siamo nell’anno della Misericordia. Qual è il “perdono” che ci insegna chi, come Livatino, ha avuto a che fare con delitti efferati e, magari, pentimenti “interessati”?
Ha citato i pentiti: è un esempio che calza benissimo. Non basta pentirsi e chiedere perdono, occorre una buona riparazione. Quando qualcuno infligge una ferita al tessuto sociale, la piaga rimane comunque aperta, e non è scontando i mesi o gli anni di galera che tutto quanto si ricompone, specialmente se il soggetto è rimasto tale e quale. Credo che la misericordia di per sé sia finalizzata al reinserimento, al recupero, a una vera conversione.

Continua a leggere tutta l’intervista di Edoardo Tincani a padre Giuseppe Livatino su La Libertà del 30 gennaio

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