“E andando nel sole che abbaglia / sentire con triste meraviglia / com’è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”, scrive Montale nel suo Meriggiare pallido e assorto: un’immagine di affanno, caldo e sofferenza, col sole allo zenit che acceca. Questa, secondo il poeta, la nostra condizione, la nostra vita.
Un’ambientazione analoga fa da sfondo a Nel paese del melodramma di Guareschi. Vi si narra di un giovanotto che, dopo cinque anni di guerra (in cui ha perso tutto, anche la casa), deve reinventarsi come “promoter” di saponi scadenti: un’esistenza miserevole, in cui si sente intrappolato. Mentre è immerso nei più tristi pensieri, a mezzogiorno in punto di una rovente giornata estiva resta a piedi: benzina finita, e nemmeno un centesimo in tasca. Spinto faticosamente il motorino a nolo fino a un’officina lungo la via (casualmente, quella di Peppone), il giovane si siede in riva a un fosso e si dispera: non ha soldi, non potrà pagare benzina e riparazioni, è troppo lontano da casa per rientrare. Improvviso lo coglie un pensiero: là c’è il fiume! “Pensò a quell’acqua e gli parve che l’aspettasse. Provò quasi una gioia”. Si incammina risoluto verso l’argine, deciso a farla finita, ma lo prende allo stomaco una “fame disperata”, che “lo teneva agganciato alla vita. «Finché desidererò di mangiare come lo desidero adesso, non troverò mai la forza di buttarmi nel fiume»”: devo bere tanto, si dice, per trovare il coraggio di gettarmi in acqua. Così entra nell’osteria del “Ganassa” (uno che quando si arrabbiava “levava il pugno e lo mollava giù come una martellata”). Mangia e beve fino a crollare sul tavolo per la sbornia, svegliandosi solo a sera. Arriva il conto: seicentodieci lire, e ovviamente non può pagare. Il Ganassa è pronto a fare un macello, “ma cosa importava? Tutto sarebbe finito nell’acqua del grande fiume”. Poi una folgorazione, il tempo di un attimo: l’infelice si ricorda che durante la guerra, in prigionia, aveva cantato “O sole mio!” ai tedeschi per un paio di zoccoli. “«Posso farvi una cantata»”, dice allora al Ganassa – il che in circostanze normali equivarrebbe ad agitare una muleta di fronte al toro. Ma il Ganassa accetta: “«Avanti!»”. Il giovanotto inizia a cantare un’aria di Verdi “e sentì uscirsi di bocca una voce che non gli pareva neppure la sua e, negli acuti, il fiato che non trovava nei polmoni lo cacciava fuori dal cuore. […]. Cantò, e quando vide spegnersi le due gemme dell’ombra, capì che aveva finito di cantare. Ganassa era lì, coi gomiti sul banco, il testone stretto tra le manacce pelose e non tirava neanche il fiato. E i tre o quattro del gruppetto in fondo alla sala pareva si fossero messi d’accordo col Ganassa”. Come il giovanotto fa per uscire, Ganassa gli porge trecentonovanta lire: “«Signore, il resto delle mille lire»”. E lui, preso dall’atmosfera: “«Il resto, mancia». «Grazie, signore», rispose Ganassa. E nei suoi occhi brillò un lampo di meraviglia perché non aveva mai ricevuto in vita sua una mancia così grossa”. Il nostro eroe a questo punto raggiunge nuovamente l’argine, “ma l’acqua lo respingeva. Tutto era uguale, ma tutto era cambiato, adesso”.

In quel momento una voce alle sue spalle lo scuote: è Peppone, che gli porta la moto riparata e col serbatoio pieno, e non vuole soldi: “«Sono già pagato di tutto: ero all’osteria anch’io»”. E la sorpresa: la moto aveva un guasto invisibile ma pericoloso. “«Se aveste fatto ancora cinquecento metri vi sareste accoppato. Vi è mancata la benzina al momento giusto». Il giovanotto impallidì e incominciarono a tremargli le mani: « È impossibile!» esclamò. «Sì, ma oggi è destino che succedano soltanto cose impossibili» replicò Peppone. Poi tacque un istante e concluse: «Giovanotto, dicano quello che vogliono, ma, politica a parte, il Padreterno è sempre il Padreterno»”.
Forse a Montale è mancato proprio l’incontro col Ganassa e Peppone.
Comincia un nuovo anno, carico di attese e di aspettative – perché nemmeno il più cinico tra noi può impedirsi di sperare ad ogni nuovo inizio. Uno sperare che è anche un rischio: ci espone all’amarezza della disillusione quando ci accorgiamo che, in realtà, niente è cambiato; quando ci scopriamo, ancora una volta, intrappolati nell’uomo vecchio che siamo. Eppure è proprio lì, lì dove siamo adesso, che l’imprevisto ci attende. Basta un istante, basta raccogliere la sfida di quello che si sta vivendo in quel preciso momento, e persino il triste giovanotto guareschiano, il cui nome è sconosciuto a noi non più che a lui stesso, ricomincia a vivere. Tutto è uguale, eppure tutto è cambiato: “era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (cfr. Lc 15, 32).
Come sarebbe, si chiedeva Maria Zambrano, se potessimo nascere all’improvviso e in un istante, senza pregiudizi e precomprensioni, senza abitudini, senza un passato, potendo contemplare il tutto come le foglie roride di rugiada sentono e contemplano l’aurora? Sarebbe come “aprire gli occhi alla luce sorridendo; benedire il nuovo giorno, l’anima, la vita ricevuta, la vita, che meraviglia! Dato che non siamo nulla o siamo appena qualcosa, perché non sorridere all’universo, al giorno che avanza, perché non accettare il tempo come un regalo splendido? Un regalo di un Dio che ci conosce, che sa il nostro segreto, la nostra inutilità e non gli importa, che non ci porta rancore per il nostro non essere”. È questa la stoffa di cui è fatta la nostra vita. E il Padreterno, che è sempre il Padreterno, ogni tanto ci manda incontro un Ganassa per ricordarcelo.
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