Migrazioni, migranti, profughi, accoglienza, ascolto, ospitalità. Se n’è parlato mercoledì 3 giugno nella sala consiliare di Castelnovo, all’incontro organizzato dalle Caritas della montagna “Profughi: li accogliamo e poi?”, davanti a una folta platea. Presenti il vice-sindaco Emanuele Ferrari, alcuni assessori, il consigliere di minoranza Roberto Ugolotti, diversi religiosi e i volontari impegnati nelle varie Caritas.
Dopo l’introduzione di don Marco Ferrari, ha preso la parola don Romano Zanni, vicario episcopale carità e missioni. “Il tema dell’immigrazione è impegnativo, complesso – ha affermato –, facciamo fatica ad essere informati adeguatamente su un ‘problema’ o, meglio, un dato strutturale che fa parte della nostra società. L’immigrazione non è un fenomeno nuovo, ma è nuovo per l’impatto mediatico, che contribuisce a diffondere la paura. Certo è un fenomeno in aumento e i numeri di oggi spaventano di più. È l’impatto emotivo dovuto all’informazione. Non è onesto. Sono 10 anni che insistiamo che non si può affrontare un problema strutturale con la mentalità emergenziale. La storia è fatta di migrazioni – ha proseguito – se ne trovano tracce da 1 milione e 800 mila anni fa. Le migrazioni che leggiamo nella Sacra Scrittura sono dei dati che ci mostrano come questo problema ci fosse già 2000, 3000 anni fa. Gesù è il migrante per eccellenza: rifiutato dai suoi, si fa profugo. Dobbiamo rispettare il migrante, il forestiero. Appartiene a quelle categorie, accanto a orfani e vedove, che hanno più bisogno di essere custodite”.
La parola è poi passata a Valerio Corghi della Caritas diocesana: “Migranti, richiedenti asilo politico, barconi, clandestini, mare nostrum, scafisti, canali umanitari, Lampedusa, soccorsi, sono alcuni dei termini maggiormente usati in questi giorni”, ha esordito. “Tutto viene visto come un’emergenza, quando invece è una quotidianità – ha ribadito – una quotidianità che non può essere impedita e non si fermerà. Ho ancora negli occhi quel bimbo all’interno del trolley. Non possiamo far finta di niente. Deve essere affrontata mettendo al centro la persona, l’accoglienza e l’ascolto, proteggendo la vita e i diritti umani, donando tempo agli altri, per una società che include e non esclude. C’è bisogno di un ascolto attento che orienta l’aiuto all’altro. Ascoltare è il primo servizio, poi bisogna entrare in relazione, una relazione d’aiuto significativa, aperta, educativa ed educante, per condividere dei progetti possibili, valorizzando le competenze di ognuno. Accogliere è un dono: significa fare spazio all’altro, allargare i propri orizzonti e non avere paura”.
Dopo l’intervento di Tommaso Menozzi (coop. L’ovile), che ha spiegato in cosa consiste concretamente l’accoglienza e come lavora la cooperativa L’ovile, che gestisce 34 ragazzi in 5 strutture a Reggio e provincia, due ragazzi ghanesi, Adam e Anthony, hanno portato la loro testimonianza, ripercorrendo le tappe del viaggio che li ha portati fin qui, in tempi diversi, attraverso tante tribolazioni, senza mai perdere la speranza in un futuro migliore.
“Traduco per Adam, perché è qui da pochi mesi” – ha detto Anthony. Adam viene dal nord del Ghana. C’era una piccola guerra tra cristiani e musulmani, per paura di essere ucciso è partito per il Togo. Sua madre vive lì, ma sono in tanti e non c’erano abbastanza soldi. Allora ha deciso di andare in un altro posto. È arrivato in Libia. “La Libia – ha precisato Anthony – qualche anno fa era l’unico posto dove si poteva trovare lavoro”. Il viaggio è stato difficile, Adam ha lavorato un po’ lì, poi è scoppiata la guerra. Pagando un certa cifra, dei militari sulla costa l’hanno imbarcato su un gommone, con altri 81 uomini, e poi li hanno abbandonati in mezzo al mare. Li ha soccorsi la guardia costiera, portandoli a terra a Lampedusa. Da lì Adam è andato in Sicilia, a Bologna e ora a Reggio.
“Anche io ho la stessa storia – ha raccontato poi Anthony –, vengo dal Ghana, ho 9 fratelli maschi, da qualche anno vivo a Felina”. Anthony ha raccontato qualcosa della sua infanzia, a 11 anni, in Africa, un bambino è ritenuto in grado di poter provvedere a se stesso, così “ho cominciato a cercarmi da mangiare da solo – ha spiegato –. In Ghana sono riuscito a studiare, ho avuto l’aiuto di una persona che io chiamo ‘good samaritan’. Dopo la scuola mi sono detto ‘devo cambiare la mia vita’, ho preso dei soldi che avevo messo da parte, e senza dirlo a nessuno, sono partito per la Libia. Dal Ghana alla Libia di solito ci si mette 2 settimane con un pick-up, io non avevo abbastanza soldi, ci ho messo un anno. Sono successe tante cose brutte, quando sono arrivato in Libia sono finito in carcere perché ero clandestino. Poi sono riuscito a uscire e a lavorare un po’. Sono stato là 3 anni, poi la guerra mi ha portato in Italia. Quando è scoppiata la guerra, il 17 febbraio 2011, ero là. Gheddafi ci faceva imbarcare gratis”. Lampedusa, Bari, Bologna, Cervarezza, Casini e poi Felina. “Quando noi arriviamo qua – ha sottolineato –, abbiamo questa mentalità, pensiamo ‘sono sano, datemi da fare’. Ero un po’ nervoso, mi annoiavo, ho deciso di mettermi a studiare: l’italiano, con Normanna, poi la licenza media e la scuola superiore dei servizi sociali. Quando ho fatto pratica in una struttura di casa protetta, sono riuscito a capire ‘ecco, questo è il mio mestiere’. Quando siamo arrivati cercavamo di salutare e nessuno ci rispondeva, mi ha fatto stare molto male”. Anche la prima settimana nella struttura non è stata facile per lui, ma “ho la capacità di affrontare le cose – ha detto sorridente –, e questi anziani si sono innamorati di me e ora mi chiamano sempre”. “Adesso mi sento un pochino montanaro”, ha concluso Anthony, che ha ripreso a studiare come oss e ha trovato la sua strada nell’assistenza agli anziani.
Dopo alcuni interventi dei presenti, la serata si è conclusa con i ringraziamenti del vice-sindaco a nome dell’amministrazione comunale. “Serate come questa – ha detto –, dove si condividono dei valori, danno una grande forza. Nel mondo della scuola sperimento ogni giorno la ricchezza che c’è nel trovarsi davanti la differenza. Dal punto di vista amministrativo, confesso un senso di frustrazione di fronte alla dittatura delle carte: tutto è urgente, sei sommerso, diventa difficile capire cos’è prioritario. Dovremmo fare più spesso incontri come questo, per costruire reti di ascolto e far sì che la montagna diventi un territorio più accogliente”.
Giuliana Sciaboni