Dal 13 al 15 agosto una delegazione internazionale della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre ha visitato alcuni villaggi del Kurdistan iracheno.
Questo il racconto di Maria Lozano, vicedirettore internazionale della comunicazione di ACS.
Ad Erbil l’aria è irrespirabile. La città si trova in un’area semi desertica e in estate le temperature sfiorano i 44 gradi. Eppure entrando nel capoluogo del Kurdistan iracheno, si viene colpiti da un’ingannevole sensazione di tranquillità. Nulla sembra indicare che proprio qui e in questo stesso momento, il destino di decine di migliaia di persone sia appeso ad un filo. E che lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante sia a soli 40 chilometri di distanza.
Dietro ai muri delle Chiese, nelle scuole, nei centri sportivi, all’ombra di palazzi fatiscenti o in costruzione, trovano riparo più di 70mila rifugiati. Il principale dei ventidue centri di accoglienza è la cattedrale caldea di San Giuseppe, nel quartiere cristiano di Ankawa, dove vivono circa 670 famiglie. Teloni improvvisati e qualche sprazzo d’ombra sono l’unica difesa dal caldo impietoso e soffocante. Molte persone sono sedute in terra, su piccole stuoie o materassi. Altre su sedie di plastica. Ankawa è un’enorme sala d’aspetto, dove migliaia di volti condividono una stessa storia.
Il 6 agosto i combattenti curdi che difendevano l’area a maggioranza cristiana a Nord di Mosul si sono ritirati abbandonando la popolazione alla mercé degli estremisti. La prima bomba ha colpito la casa della famiglia Alyia a Qaraqosh, uccidendo il piccolo David e suo cugino Mirat che giocavano in giardino. Qaraqosh è stata per secoli casa di decine di migliaia di cristiani. Ora quasi l’intera comunità ha lasciato il villaggio, come accaduto in altri centri, tra cui Bartella e Karamlish. Circa centomila cristiani sono stati costretti a lasciare le proprie case nella Piana di Ninive per dirigersi verso Dahuk, Zakho ed Erbil nel Kurdistan iracheno. Migliaia e migliaia di persone sono fuggite portando con sé solo qualche vestito in uno zaino. Un tragico déjà-vu per chi aveva vissuto la stessa situazione nella notte tra il 9 ed il 10 giugno, quando in poche ore e senza incontrare alcuna resistenza da parte dell’esercito, Isis aveva assunto il controllo di Mosul.
Dalla caduta del regime di Saddam Hussein, a Mosul sono stati uccisi in odio alla fede oltre mille cristiani. «Mio fratello Salman aveva 43 anni quando lo hanno freddato con tre colpi di pistola alla testa», afferma un uomo. Accanto a lui, sua madre stringe la foto di Salman con entrambe le mani. Si erano trasferiti a Qaraqosh nella speranza di un futuro migliore, ma l’avanzata dei fondamentalisti li ha costretti ancora una volta a fuggire.
«Non è di noi che ci preoccupiamo, ma dei nostri figli», urla disperata la mamma di sei bambini che a Mangesh condivide una stessa tenda con altre cinque famiglie. Sedici bambini e non un singolo giocattolo, non una bambola. Alcuni di loro dormono perfino sul pavimento.
Ad Erbil vi sono file di tende per accogliere quanti non hanno trovato spazio nei vari edifici adibiti ad alloggi di emergenza. In ogni tenda vivono almeno otto persone che di giorno sopportano temperature fino a 44 gradi e durante la notte corrono il rischio di essere morse dai ratti e dagli scorpioni.
«Siamo fuggiti per salvare le nostre vite, la nostra fede e l’onore delle nostre mogli e figlie», raccontano alcuni facendo notare come la tempestiva fuga abbia risparmiato ai cristiani la drammatica sorte toccata alla minoranza yazidi, i cui fedeli hanno subito massacri e stupri. Tuttavia, accanto ai beni materiali, ai cristiani di Qaraqosh, Alqosh, Tell Keyf e degli altri villaggi è stata portata via la speranza. «Non posso più vivere qui – singhiozza il padre di David, uno dei due bambini uccisi a Qaraqosh – questo paese è intriso di sangue». Sua moglie si copre il viso con entrambe le mani e si abbandona ad un pianto disperato. Non c’è nessuno che possa offrire loro un sostegno psicologico, sono stipati in una scuola di Ankawa con centinaia di altri rifugiati.
La Chiesa è straordinariamente presente e attiva. Sacerdoti, religiosi e vescovi telefonano, organizzano, ascoltano, consigliano. Sostengono i rifugiati con ogni mezzo a disposizione ad Erbil come a Duhok, dove vi sono altri 60mila rifugiati cristiani.
Anche l’arcivescovo di Mosul, monsignor Emil Shimoun Nona, è un rifugiato. Quando Isis ha conquistato la seconda città d’Iraq, il presule si trovava in un altro villaggio della sua diocesi e non ha potuto far ritorno a casa. Ora incoraggia i suoi fedeli, dona loro pacchi di viveri e cerca di procurare tutto ciò di cui hanno bisogno: materassi, tende, ventilatori, medicine.
Ad Erbil, Zakho, Dahuk e in tutto l’Iraq la sofferenza dei cristiani si riflette in tanti volti segnati dalle lacrime. «Aiutateci – supplicano – la nostra unica speranza è che qualcuno ci salvi da una morte certa». Chiedono un aiuto immediato che consenta loro di trovare alloggi dignitosi al riparo dal caldo soffocante dell’estate irachena. E chiedono protezione e sicurezza: condizioni indispensabili affinché i cristiani abbiano nuovamente il diritto di vivere la propria fede, in una terra che abitano da secoli.
“Aiuto alla Chiesa che Soffre” (ACS), Fondazione di diritto pontificio fondata nel 1947 da padre Werenfried van Straaten, si contraddistingue come l’unica organizzazione che realizza progetti a sostegno della pastorale della Chiesa laddove essa è perseguitata o priva di mezzi per adempiere la sua missione. Nel 2013 ha raccolto oltre 88,3 milioni di euro nei 20 Paesi in cui è presente con Sedi Nazionali e ha realizzato 5.420 progetti in 140 nazioni.