Luca Rossi, 24 anni, iscritto al secondo anno del corso di laurea specialistica in “Istituzioni e Politiche dei Diritti Umani e della Pace” presso l’Università di Padova, sta concludendo un semestre di studio e di esperienza sul campo ad Amman.
Con quale organizzazione e perché hai deciso di compiere tale esperienza?
L’opportunità di svolgere un’esperienza all’estero per quanto riguarda sia il lavoro, che lo studio e la vita, è impagabile. In particolare è ora il Medio Oriente che rappresenta il mio campo d’interesse; ho sempre considerato questa zona del mondo come un’area molto importante, dal cui equilibrio dipende anche quello non solo dell’Europa, ma del mondo. Io sono partito tramite il progetto SVE (Servizio Volontario Europeo) con l’associazione Xena di Padova e ora lavoro all’Amman Center for Human Rights Studies (ACHRS).
In quali settori stai focalizzando le tue ricerche?
Le attività del mio lavoro spaziano dai rifugiati all’impegno nella vita pubblica di donne e giovani. Inoltre, parallelamente alla mia attività lavorativa, sto effettuando il lavoro di ricerca per la mia tesi, che si focalizzerà sulla situazione dei lavoratori migranti egiziani in Giordania, aspetto molto importante e di attualità all’interno del Paes
Che situazione hai trovato nella capitale giordana?
Ad Amman, così come in tutta la Giordania, si respira un clima tranquillo e cordiale. Il Paese rappresenta infatti l’unico elemento di equilibrio dell’area ed eventuali sconvolgimenti sarebbero tragici per tutte le zone circostanti. Inoltre, la Giordania è una Paese in una fase di forte evoluzione e trasformazione, in cui confluiscono investimenti da parte di tanti Stati.
La popolazione giordana è molto cordiale ed aperta; ho il rammarico di non aver appreso a sufficienza la lingua araba, perché ciò rappresenta un ostacolo alle relazioni.
Come sta vivendo la Giordania questo difficile momento di lotta tra Palestina e Israele?
La Giordania ospita nel suo territorio un grande numero di cittadini palestinesi, qui rifugiatisi dopo le guerre del 1967 e 1973; si stima che più di un terzo della popolazione giordana sia di origine palestinese. Ciò, oltre alla vicinanza fisica a quanto sta accadendo, genera anche una vicinanza alle persone vittime di questa situazione. Nonostante l’estrema prossimità tra Amman e Gerusalemme (70 km), qua non si avverte nessun cambiamento nel modo di vita rispetto ai mesi precedenti. Certo è presente in tutti noi una forte apprensione per gli eventi oltreconfine e ci auguriamo tutti che questo possa finire presto, anche se ad oggi le notizie non sono per niente confortanti. Certo, la permanenza in quest’area mi ha dato una differente e più completa visione degli avvenimenti. Rimango soprattutto colpito dalla costante disinformazione o informazione parziale che giunge dai media occidentali e dagli stessi esponenti politici. In occidente questo evento viene descritto come una normale contesa, seppur decennale, tra due antagonisti, dimenticando le ragioni che hanno portato allo scontro, nonché le ripetute e costanti violazioni del diritto internazionale e degli accordi di pace. A ciò si aggiungano gli atteggiamenti contrastanti da parte di singoli Paesi e della stessa UE.
Come sei stato accolto? Quali contatti hai avuto con la popolazione locale?
Con la popolazione giordana ho avuto la fortuna di avere contatti di ogni genere, da rapporti di lavoro a quelli di amicizia. Si può dire che la popolazione delle aree urbane, particolarmente ad Amman, è moderna e quindi le relazioni con loro sono molto “normali”, simili a quelle che s’intrattengono in altri Paesi. Senza dubbio sono da sottolineare la generosità e l’ospitalità di queste persone. Nelle aree più remote del Paese, come nel deserto e nella zona di Petra, è interessante conversare con le persone che lì abitano da sempre. Queste persone, così immerse nella natura colpiscono per la loro semplicità e la profondità delle loro parole. In un mondo sempre più piccolo e interconnesso, la scelta di rimanere saldi alle proprie radici non è da giudicarsi come arretratezza e povertà, bensì come una scelta pienamente consapevole, in linea con il modo di riflettere di queste persone.
Raccontaci la tua esperienza di insegnante di italiano presso la sede della “Dante” ad Amman.
Durante il mio soggiorno in questo Paese ho lavorato anche come insegnante presso la scuola italiana della Società “Dante Alighieri” ad Amman. Ho insegnato la lingua italiana a studenti giordani e di altre nazionalità. E’ stata un’esperienza molto interessante, anche perché mi ha fatto comprendere pienamente il sentimento che i Giordani nutrono nei confronti di noi italiani. E’ stimolante vedere come le persone siano appassionate alla nostra lingua e alla nostra cultura, chi per motivi di studio chi per interesse personale.
Hai svolto attività tra i rifugiati, in particolare con i bambini?
In questi mesi ho svolto attività di volontariato insieme all’associazione DAY (Dar al Yasmin) che si occupa di bambini e giovani presso Zaatari Village, vicino al grande campo di rifugiati di Zaatari. Sono soprattutto i bambini siriani profughi – fuggiti da una situazione estremamente drammatica – a beneficiare di queste attività: si alterna il gioco con piccolo bricolage; mentre con le famiglie ci si occupa di sanità e igiene. Inizierà a breve un progetto per la costruzione di una scuola in quell’area. Si sta promuovendo un processo di normalizzazione: i bambini sono bambini e devono giocare, studiare e divertirsi. Le tracce di quello che hanno passato, seppur difficilmente, devono essere cancellate, restituendo loro le peculiarità dell’infanzia che molto spesso sembrano perdute nei loro occhi e nei loro comportamenti, già fin troppo duri e cinici.
Come sono i tuoi rapporti con i tanti lavoratori internazionali che operano ad Amman?
La comunità internazionale in questa città è numerosa, visto che la maggior parte delle organizzazioni internazionali e ONG ha sede qui, data la stabilità del Paese e i buoni rapporti con gli altri Stati. La presenza di tanti “expats” (persone che lavorano in un altro Paese) ad Amman rende questa realtà più attiva e internazionale. Inoltre l’inglese risulta essere la lingua veicolare tra le persone, e rende i contatti molto più facili e immediati.
Consiglieresti ad altri tuoi coetanei che frequentano questo corso di laurea un’esperienza simile?
Vivere e lavorare all’estero è un’esperienza da fare e che consiglio a chiunque, indipendentemente dalla scelta del corso di studi e dalle ambizioni future. Il trovarsi catapultato in una realtà diversa, magari culturalmente distante come quella araba, permette di confrontarsi con se stessi e con le altre persone. Esperienze come queste permettono di allargare la propria mente e ampliare i propri orizzonti, creando nuovi stimoli e fornendo strumenti di giudizio per analizzare gli eventi, distanziandosi così dai luoghi comuni e dalle notizie, spesso faziose, incomplete e preconcette che giungono da aree lontane del mondo.
Il 30 luglio fai rientro a Reggio: cosa ti porterai di questi sei mesi?
Ogni esperienza porta con sé tanti elementi, che in maniera inconscia condizionano il modo di vivere e di pensare. Non posso dire esattamente quali saranno quelli più importanti nel mio percorso di crescita, ma so per certo che risulteranno molto importanti nel futuro.
r. c.