«Amare infinitamente» l’epistolario di Tilde e Antonio, intimi in Dio, sarà presentato a Reggio Emilia il 14 maggio

“Anche perché dopo Dio, la Madonna e i santi del cielo, io insisto con certezza a ridire che tu sei la mamma della mia vocazione e sarai – come vuole il Signore – una delle forze vive per il mio apostolato. Pensa sempre che saremo domenicani e apostoli insieme”. Queste parole, indirizzate da fra Antonio Lupi il 4 agosto 1939 alla Serva di Dio Tilde Manzotti, dicono di un legame spirituale molto forte tra due giovani corrispondenti, che anche la ventiquattrenne di origine reggiana, che sarebbe morta appena due mesi dopo di tubercolosi, definì sullo sfondo dell’eternità: “usque dum vivam et ultra”, ossia “finché vivrò e oltre”.
Le lettere di Tilde ad Antonio sono 14, più una cartolina postale, mentre quelle di lui sono 12, di cui 3 scritte in successione ma imbucate insieme. Non sono state ritrovate tutte: mancano le prime, scritte fra l’agosto 1938 e il marzo 1939, e si è persa per strada quella che, con tutta probabilità, era la più personale nei contenuti. Ma quanto è stato raccolto e pubblicato da Elena Cammarata in “Amare infinitamente” (Edizioni Feeria 2014, 206 pagine, 16 euro) è più che bastevole a restituirci un’amicizia spirituale solida, in cui l’affettività di base, indubitabile, non scade mai nel sentimentalismo o nella posa.

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]H[/dropcap]a ragione don Alessandro Andreini della Comunità di San Leolino – che mercoledì 14 maggio sarà in Sant’Agostino, a Reggio Emilia, per celebrare la santa Messa delle 18.30 e presentare il libro alle 21, nel Teatro parrocchiale, presente il vescovo Massimo Camisasca – quando nella prefazione scrive che noi postmoderni non siamo più abituati a leggere epistolari e a seguire in parallelo il cammino di due esistenze che vanno chiarendo con sempre maggiore coinvolgimento la loro vocazione, vissuta come abbandono alla volontà di Dio e al suo amore “eccedente” per le anime.
I manoscritti, poi, con l’attesa del recapito postale… roba da antiquariato, nell’epoca dell’e-mail in tempo reale e delle esistenze digitali, aggiungiamo noi.
Ma non avrebbe senso soffermarsi sul contenuto del libro senza presentare ai lettori i suoi protagonisti postumi.

Di Tilde Manzotti, a dire il vero, parliamo da diverso tempo: l’ultima volta è stato in occasione della traslazione delle sue spoglie mortali nella chiesa di San Domenico, a Fiesole. Era l’8 febbraio scorso e ce ne diede notizia Fabiana Guerra, la coordinatrice del gruppo diocesano “Amici di Tilde”, cui La Libertà aderisce.
Ricorderemo solo che Tilde – la cui causa di canonizzazione fu introdotta nel luglio 1995, con il deposito degli atti dell’inchiesta diocesana presso la Congregazione delle Cause dei Santi il 25 gennaio 1999 (oggi sta per compiersi un’indagine suppletiva) – nacque a Reggio Emilia il 28 maggio 1915 da Primo, insegnante elementare, e da Giuseppa Ferretti, casalinga, prima di sette figli davanti a Lilia (la custode dell’epistolario per oltre cinquant’anni), Piera, Virgilio, Giuseppe, Emanuele (detto Pier Giorgio o anche solo Giorgio) e Maria Grazia. Studentessa modello, Tilde dovette fare molto presto i conti con i primi sintomi di tubercolosi. Nel 1936 la famiglia Manzotti si trasferì a Firenze, dove Tilde, sotto la guida di alcuni padri domenicani, compì un folgorante itinerario spirituale che culminerà nella sua offerta incondizionata all’amore di Dio, fino alla morte, avvenuta il 3 ottobre 1939.

Giuseppe Lupi, di tre anni più giovane di Tilde – essendo nato a Peccioli (Pisa) il 19 luglio 1918 – venne invece alla luce ultimo di sette figli in una famiglia di modeste condizioni: dopo le scuole elementari, fu mandato a studiare in seminario presso la Scuola Apostolica dei Domenicani di San Miniato al Tedesco (Pisa), dove ben presto maturò la decisione di entrare nell’Ordine domenicano. Fece la professione religiosa il 20 luglio 1939 e ricevette l’ordinazione sacerdotale nel 1941, assumendo il nome di Antonio. Nel 1945 diventò dottore in teologia e nel 1950 conseguì la laurea in lettere e filosofia all’Università di Firenze. All’indomani del Concilio Vaticano II iniziò ad appassionarsi alla realtà dell’America Latina, tanto da decidere di trasferirsi in Brasile dal 1969 fino alla morte, che lo colse a Goiana il 5 settembre 1976.
Ai fini della “nostra” storia, però, l’incontro che conta avviene nel giugno 1938 a Covigliaio, frazione del comune di Firenzuola, vicino al passo della Futa, in Toscana, ove Tilde – indebolita nel fisico per i problemi polmonari e prostrata anche spiritualmente – era giunta per trascorrere qualche settimana di vacanza nel piccolo convento delle Suore domenicane di Santa Caterina da Siena. Nello stesso convento soggiornava temporaneamente il seminarista fra Antonio, anch’egli ammalato di tubercolosi polmonare, ospite di sua sorella, suor Amabile, che lì risiedeva.
Compagni di mensa, di brevi passeggiate e di più lunghe ore di riposo, tra i due aumentarono la confidenza e la comunanza di ideali generosi e totalizzanti. Tilde comunicò a fra Antonio la sua volontà di farsi suora, temprata nel braccio di ferro quotidiano con il dolore e la malattia; fu questo che, con il trascorrere dei mesi, la trasformò da ragazza vivace e idealista in una “mamma” della vocazione dell’amico seminarista. Nell’ottobre 1938 fra Antonio fece conoscere a Tilde il domenicano padre Stefano Lenzetti, che divenne il suo direttore spirituale e che non ostacolò l’amicizia dei due giovani, comprendendo i frutti che quelle due anime votate all’offerta di sé potevano far sbocciare sulla via della santità. Nello stesso autunno Tilde fece voto di vittima, guidata proprio da padre Lenzetti, scrivendo sul suo Diario una formula analoga a quella di santa Teresa di Lisieux, cui era devota.

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]C[/dropcap]erto, sia Tilde che Antonio si rendevano conto che il contenuto delle lettere potesse essere in qualche modo travisato. Leggendole oggi, a più di quindici lustri di distanza, emerge con sorprendente freschezza come la loro intesa spirituale raggiunga picchi di singolare intensità, ma si evidenzia pure che l’esperienza cristiana, lungi dall’ingabbiare o soffocare la dimensione dell’affettività umana, finisce in realtà per esaltarla e approfondirla.
Nelle ultime lettere, che Tilde – intontita da febbri sempre più violente – detta o scrive con enorme sforzo, si avverte in entrambi il desiderio di condividere e dirsi tutto; il “lei” lascia il posto al “tu”, nella consapevolezza di un distacco inevitabile su questa terra, ma non nell’orizzonte dell’Amore divino.

La lettura di questo carteggio, se si toglie il dramma, già presente, dell’imminente scoppio della seconda guerra mondiale, risulta assolutamente “fuori dal tempo”: serve a conoscere meglio una concittadina che un giorno, a Dio piacendo, sarà Beata. Ma più che tutto rende omaggio all’amore ascetico e oblativo, così schiacciato dalla logica mondana del “do ut des”.
Un libro da consigliare a chi, ogni tanto, ami immergersi nelle cose di lassù.

Edoardo Tincani

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