Il card. Martini, una scelta di abbandono alla volontà di Dio

Foto di repertorio, il Cardinale Carlo Maria MartiniDopo un’ultima crisi, cominciata a metà agosto, il cardinal Martini non è più stato in grado di deglutire né cibi solidi né liquidi. Ma è rimasto lucido fino quasi all’ultimo e ha rifiutato ogni forma di accanimento terapeutico, ha detto il neurologo Gianni Pezzoli, che da anni aveva in cura l’arcivescovo emerito di Milano. Il neurologo, che ha seguito il cardinale “negli ultimi dieci anni” e l’ha visto la mattina dell’ultimo giorno, ossia il 31 agosto, ha precisato: a metà agosto, dopo che non poteva deglutire alcunché, è stato sottoposto a terapia parenterale idratante, per non farlo morire per disidratazione. Ma il malato non ha voluto alcun altro ausilio: né la peg, cioè il tubicino per l’alimentazione artificiale che viene inserito nell’addome, né il sondino naso-gastrico, permanendo comunque la terapia idratante in vena. In quello stadio finale della malattia quegli interventi dovettero apparigli inutili, anzi dannosi.

C’è stato chi ha visto in questa scelta un contrasto con la dottrina ufficiale della Chiesa. In realtà il cardinal Martini ha fatto ciò che consente la morale cattolica, la quale riconosce al malato il diritto di non sottoporsi a determinate terapie o tecniche di alimentazione che non procurano più un reale beneficio, anzi un ulteriore disagio.
Vi è chi ha fatto una lettura totalmente fuorviante della dichiarazione del neurologo Pezzoli, assimilando la morte di Martini a quelle di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby, quindi in contrapposizione con la dottrina della Chiesa.
In realtà la scelta di rinunciare a modalità di alimentazione disagevoli e non più benefiche a un malato in stato terminale è conforme alla dottrina della Chiesa, la quale distingue i mezzi terapeutici proporzionati (quando cioè il disagio dell’intervento medico è compensato da un effettivo beneficio per il malato) dai mezzi sproporzionati, che ormai non procurano più alcun reale beneficio.
Martini ha rinunciato alla peg, ritenendola nella sua condizione un intervento eccessivo, anzi dannoso perché sproporzionato. Non c’è stato nessun atto soppressivo della vita, né alcuna omissione mirata a provocare la morte.

La prima fondamentale distinzione che qualifica moralmente queste scelte è l’ispirazione, ossia la filosofia o ideologia sottesa.
Se qualcuno sostiene che è legittimo rifiutare interventi medici in nome del principio di autonomia assoluta del paziente, allora è chiaro che quell’autonomia conduce inevitabilmente anche al diritto di chiedere il suicidio assistito.
Se invece si rinuncia a certe terapie perché non procurano più alcun reale beneficio al paziente, quando cioè si prevede una sproporzione tra il disagio provocato dall’intervento medico e il beneficio insignificante o nullo che ne deriverà, in tal caso semplicemente si rifiuta una terapia per niente moralmente obbligatoria.
Infine è fondamentale ribadire che la grande differenza tra la scelta del cardinale Martini e altre scelte che aprono una breccia verso l’eutanasia, sta anzitutto nella motivazione e nella ispirazione. Ossia nella filosofia sottesa. L’abbandono alla volontà di Dio è profondamente cristiano, mentre l’appello all’autodeterminazione e all’autonomia assoluta del paziente, in nome del diritto a disporre di una vita ritenuta ormai indegna di essere vissuta, conduce inesorabilmente all’eutanasia.

Il cardinale ha inteso morire in pace con l’idratazione in vena e qualche sedativo. Similmente fece Giovanni Paolo II quando, di fronte alla prospettiva di un nuovo ricovero ospedaliero per ulteriore intervento in fin di vita, ha sussurrato con voce flebile in polacco: “Lasciatemi andare alla Casa del Padre”.

Don Emilio Landini


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